Il posto migliore dove lavorare è sulle nuvole!

Sapete qual è il posto migliore dove lavorare?
A quanto pare sulle nuvole!

Ebbene, pare proprio di sì! Infatti ai vertici della classifica 2017 di Great Place To Work, ecco l’azienda Salesforce, con sede a San Francisco e specializzata in cloud computing per gestione di dati da archiviare, elaborare o trasmettere.

La regina della classifica precedente era Google, ora spodestata e addirittura assente, spiazzando così chi di solito ha invidiato le persone che lavorano non solo nella sede centrale a Mountain View, in California,  soprattutto guardando video su You Tube dove fior fiore di cervelli, circondati da ogni comfort, giocano per esempio a basket, lavorano quando vogliono in team e da soli, ragionando  e producendo – si fa per dire – solo per obiettivi e qualità del lavoro e (forse) della vita, almeno certamente di quella propria!

In breve, le big five 2017 della ricerca dove è più bello lavorare sono, dopo SalesforceAdecco al secondo posto, SAS Institute al terzo, Mars al quarto e Natura al quinto posto. Sia al vertice che nel resto della classifica –  che comprende 25 aziende multinazionali – l’area tecnologica e dei servizi connessi la fa da padrone, ma segnano ottime presenze anche aziende di aree beauty, alimentari, tecnologie medico-sanitarie- ospedaliere, alberghiere, finanziarie, informatica, ed altro.

Tra quanto vedremo qualche azienda italiana doc in classifica mondiale al vertice di Great Place To Work?

Le vie del benessere organizzativo possono essere infinite, ma alcune sono basic. Cominciamo a diffondere queste e vedremo che le aziende coraggiose italiane che su questi temi investono e non demordono potranno ambire anche al podio internazionale di Great Place to Work.
Con soddisfazione di tutti coloro che vi lavorano.

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Giganti del passato e guru last minute

Le personalità che hanno fatto la storia nel pianeta Risorse Umane

Figure famose, persone a cui intitolare strade, erigere monumenti o scuole, leader nel campo dell’impresa, della scienza o della cultura che hanno marcato un periodo, uno stile, un particolare approccio al lavoro, alla creatività, all’innovazione, all’etica professionale, costoro hanno “fatto epoca”, hanno influenzato la storia del Pianeta Risorse Umane.

Alberto Alessi, Charlie Chaplin, Samantha Cristoforetti, Rita Levi Montalcini,  Adriano Olivetti, Steve Jobs, Marissa Mayer, e altre sono alcune delle figure – bussola proposte come riferimenti importanti. Ognuna di tali figure è da considerarsi distinta e differente dalle altre per tratti, caratteristiche, mondo di appartenenza, e a mo’ di esempio, in quanto fonte di apprendimento per la rispettiva influenza sul Pianeta R.U. e per la comprensione che ci permette di alcuni aspetti di quest’ultimo. Insomma per vivere, oggi e nel futuro, con qualche strumento di riflessione in più, talora offerto da queste persone anche a loro insaputa.

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Quando tra il dire e il fare sono i numeri a parlare!

Considerazioni sulle pari opportunità

Quando tra il dire e il fare sono i numeri a parlare!” non è un nuovo proverbio ma una considerazione di sintesi a proposito di quanto emerge dalla Ricerca Nielsen Women and Diversity su un campione di oltre 30.000 persone di 63 Paesi (Asia-Pacifico, Europa, America Latina, Medio Oriente-Africa e Nord America) tra cui l’Italia.

Scenario al 27.09.2017 di numeri attuali e considerazioni su pari opportunità, gap gender e divisione dei ruoli in famiglia e sul lavoro tra donne e uomini, secondo gli autori della ricerca.


Leggi anche il mio articolo su “Donne e lavoro nel rapporto INPS” 

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Dal Flash Mob al Flash Job. Comunque in Team!

Dalla flash performance di sconosciuti che si radunano improvvisamente per sparire altrettanto in velocità alla performance di lavoro a progetto di professionisti individuati come i migliori nel proprio campo di competenza e radunati per un tempo “flash” su un progetto specifico.

Per ora sarà Foundry, una piattaforma, che comporrà il gruppo con le persone dalle competenze giuste, estratte da un data base di milioni di soggetti esperti, convogliandole per un progetto specifico che ha durata e scadenza precise.  I soggetti riceveranno anche un rating indicatore di affidabilità e competenza, e ci ritroveremo con una sorta di Trip Advisor sul fronte professionale.
Melissa Valentine e Michael Bernstein sono i due professori dell’università di Stanford che hanno studiato questo fenomeno in auge negli USA (oltre che autori di Foundry) e ne evidenziano vantaggi e rischi. Di certo per le aziende diminuisce il costo della ricerca dei professionisti più bravi in un certo ambito ma da convocare e utilizzare temporaneamente attraverso Foundry, e dall’altra i free-lance che vogliono rimanere tali – o che non riescono a uscire dalla precarietà- possono aspirare a crescere in carriera in termini di self made person e a diventare anche professionalmente attrattivi. Sia imprese che persone, però, naturalmente convivono con il rischio del flash e quindi dell’incertezza sia in termini di mantenimento e fidelizzazione delle risorse più brave, dal punto di vista aziendale, sia della non continuità occupazionale da parte dei professionisti.

Se il primo flash mob a giugno del 2003 a Manhattan suscitò meraviglia e clamore, tanto che il Chicago Tribune ne ipotizzò la lettura come un momento di follia collettiva per il caldo, oggi possiamo chiederci se il flash job non solo individuale ma anche in team non sia altrettanto presupposto di tendenze lavorative che complicano la vita soprattutto in ottica inversa al work life balance, rendendola sempre più precaria o invece supportino desideri di qualità della vita e nuove forme di organizzazione sia della vita di lavoro che di quella più generale delle persone.

D’altronde capacità di adattamento a contesti e difficoltà diverse, velocità, occhio all’obiettivo e capacità auto-organizzativa sono caratteristiche importanti per chi vuole partecipare a un flash mob. Ma questi tratti servono anche nelle organizzazioni di lavoro di oggi, oltre alle competenze tecniche. Quindi, paradossalmente, se qualcuno ha già partecipato a un flash mob ma non ha ancora un job, sappia che nel curriculum potrà evidenziare l’esperienza perché indicativa di capacità da trasferire nel lavoro, anche se flash!

E sperando che l’ipotesi del Chicago Tribune a proposito del primo flash mob non si traduca nel futuro nella follia collettiva e diffusa a proposito di job.

Per saperne di più e ascoltare un esempio proposto da Melissa Valentine e Michael Bernstein CLICCA SUL LINK

La presidenza Trump tra fiction e realtà

Trump

Donald Trump si pone come il salvatore dell’America che ha descritto con toni apocalittici nel discorso di insediamento e che pone l’America first come obiettivo primario.

The President finora si è dato da fare sul piano interno e internazionale per costruire un mondo decisamente diverso dalla vision di Obama e per richiamare nei toni e negli atteggiamenti muscolari quel John Wayne che – in versione cowboy – è nello spirito di molti degli americani che lo hanno votato.

house-of-cardsIl piccolo problema è che Donald non è il protagonista di un film western, non è nemmeno – con la moglie Melania – in una fiction dedicata agli intrighi del potere come House of Cards dove la coppia Frank Underwood e la moglie Claire raggiungono – prima lui e poi lei (ma solo nel finale della quinta stagione della serie) – l’ambita presidenza degli Stati Uniti, attraverso una gestione del potere scaltra e decisamente poco etica…

Se Washington è il centro politico del mondo, sia nella fiction citata sia nella realtà, è importante che Donald Trump e la sua First lady non confondano troppo i due piani, perché le decisioni prese hanno a che fare con una gestione della leadership e del potere che nella loro interpretazione presenta parecchi tratti poco sani e quindi da non sottovalutare rispetto ai pericoli che comporta.

Ecco dunque delle brevi riflessioni in proposito che ho condiviso con Andrea Castiello D’Antonio 

Intervista a Luciana d’Ambrosio Marri, un’esperta in vita aziendale

Nel suo lavoro ha avuto modo di confrontarsi con numerose realtà lavorative, pubbliche e private. Che idea si è fatta sull’utilizzo della compagine femminile?

Di fatto oggi il mondo del lavoro riconosce necessarie quelle qualità e competenze che per secoli sono state percepite come debolezze della sensibilità femminile.

Empatia, visione d’insieme, capacità di pensiero e azione multitasking, capacità innovativa, sono solo alcuni esempi. Molte aziende private in Italia si sono per prime rese conto concretamente del valore aggiunto che tali competenze possono assumere per l’azienda e la sua redditività, a prescindere dal fatto che siano possedute da uomini o donne.

Sono quindi competenze soft della professionalità che è importante riconoscere e diffondere, anche attraverso la formazione del personale a tutti i livelli gerarchici su questi terreni, perché – al di là delle sensibilità personali di uomini e donne – lo sviluppo in competenza di questi e altri tratti richiede apprendimento consapevole e politiche mirate di sviluppo del personale a comportamenti e valori che si sostengono vicenda…..[…]

Per leggere l’intervista completa CLICCA QUI

Leggi tutto “Intervista a Luciana d’Ambrosio Marri, un’esperta in vita aziendale”

Donne e lavoro nel rapporto INPS

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E’ ora che anche molti uomini si pongano una domanda e si diano qualche risposta.

A proposito di figli e lavoro, ancora per quanto il dilemma resterà delle donne?

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Working Mother

Un uomo italiano rinuncerebbe al 35% della retribuzione nel pieno della propria vitalità anagrafica e di prospettive professionali, per cambiare pannolini, gioire di tenerezza ma faticare a prendere sonno, alzarsi la notte per capire se affrontare colichette o qualche incubo, comprendere da piccoli segnali una personcina sconosciuta che ami ma talvolta ti fa impazzire e desiderare di tornare indietro anche se non si può, e sapere che questo ed altro non finisce lì ma che è solo l’inizio di un periodo che non sai bene quando finirà e si trasformerà in altre ansie e, si spera, altre gioie?

Sarebbe probabilmente preso per matto secondo la cultura dominante e latente, dagli amici, dai parenti, dalla partner. Eppure il 35% è proprio la percentuale di reddito che, secondo il Rapporto Annuale INPS presentato il 4 luglio, la donna perde quando decide di avere un figlio, anche se non perde il lavoro. Non è certo consolante, non è un incentivo alla natalità, né è un incentivo alla carriera delle donne nel mondo del lavoro.

 

C’è poi un problemino che non riguarda solo (!) le donne: non utilizzando la risorsa donna-che-lavora, l’Italia perde percentuali significative di PIL… Anche lo sviluppo del Paese, è dunque un problema solo delle donne o, al contrario, riguarda tutti?

Secondo il rapporto INPS, i papà che utilizzano il congedo di paternità sono pochissimi e, aggiungo io, pochi sono destinati a rimanere se perdura una cultura sociale e aziendale intrisa di pregiudizi sul significato di paternità, secondo cui  questi pochi capitani in versione di papà coraggiosi sono spesso derisi da colleghi e parentado, vengono chiamati mammi – nell’evocazione negativa del termine – perché poco virili nella gestione del ruolo cui sono invece chiamati sia da un sano desiderio personale di condivisione affettiva e fattiva e sia da una partner intelligente che vuole condividere, invece che accentrare, il ruolo e la funzione di cura dei pargoli.

Allora urge un richiamo alle persone, donne e uomini, che con ruoli di alta responsabilità governano aziende e istituzioni, partiti e movimenti, appartengono a vario titolo al mondo della P.A e al mondo del privato: unitevi, uniamoci, rendiamo insieme questo Paese un paese civile, un paese normale, un paese che non rinuncia volontariamente – come invece sta facendo – alla metà delle risorse che ha per la perversione di freni, inibizioni, pregiudizi, logiche secolari di organizzazione del lavoro, resistenze e attaccamento al potere nascosti dall’alibi di una presunta necessità di meritocrazia, che tra l’altro è stata finora spesso assente ma che è sicuramente necessaria. Ma attenzione alla meritocrazia: quando la evochi devi applicarla. Quindi  ben venga, anzi le donne per prime la vogliono anche per un piccolo particolare che può far tremare chi è troppo attaccato alle posizioni apicali ricoperte: se effettivamente applicata e diffusa, la meritocrazia vedrà (come accade nei paesi e nelle aziende dove è realmente praticata) più donne ai vertici, perché – guardando solo l’Italia – le donne prendono migliori voti all’università e si laureano prima degli uomini. Le ricerche di management in tutto il mondo dimostrano che le donne in ruoli di alta responsabilità hanno tendenzialmente capacità gestionali e di performance migliori dei colleghi maschi. Con notevoli effetti sulla crescita del business e  migliore reattività alle situazioni di crisi.

Allora, vogliamo continuare soltanto a parlare e dare i numeri? Non sarebbe meglio inventarsi e/o “copiare” da esempi positivi  politiche sane di conciliazione di vita famiglia-vita lavoro a vantaggio di tutti, una modalità di distribuzione più equa nella coppia della vita di famiglia, costruire e offrire servizi che farebbero crescere il Paese in tutti i sensi, anche per il volano occupazionale che rappresenterebbero?

Non è utopia: in molte parti del mondo è realtà. E da noi?

In molte organizzazioni ci si  impegna molto in questa direzione, ma i casi sono ancora sporadici rispetto al tessuto delle imprese italiane e alle condizioni esistenti di welfare pubblico e privato che non facilitano la diffusione delle buone prassi. Chi sostiene che è una missione impossibile rema solo contro e non merita fiducia. Anche perché dove le donne lavorano nascono più bambini. Quindi, non ha basi nemmeno l’alibi di chi sostiene il contrario pur di evitare che le donne sfondino il famigerato ma persistente soffitto di cristallo, che in certi ambienti è sì trasparente, ma di una tale resistenza allo sfondamento che pare fatto di cemento armato.

Se vuoi leggere il Rapporto INPS per saperne di più CLICCA QUI